Venezia 81. Recensione di "Maria" di Pablo Larraìn

L’ultima settimana di vita di Maria Callas (Angelina Jolie), forse il soprano più famoso del Novecento, nota anche ai non melomani.
Il regista confeziona un ritratto psicologico di una donna che sta perdendo la voce e la vita, che conduce un’esistenza divisa tra Maria e la Callas, due identità che è difficile far convivere. Allo stesso modo per la protagonista è difficile convivere con i suoi domestici (Alba Rohrwacher e Pierfrancesco Favino) che le fanno quasi da genitori, con i suoi ammiratori (dai quali ama sentirsi venerata ma con i quali è scostante) e con i due uomini della sua vita (con i quali c’è una relazione di amore e odio), oltre che con la musica. Quest’ultima è, ovviamente, una parte integrante. Non solo per la scelta dei brani che accompagnano le due ore di film, ma anche per il modo non didascalico che Larraìn sceglie per raccontare la Callas: le folle adoranti sono solo ricordi passeggeri e fulminei, che il montaggio ci mostra col contagocce e senza mai indugiare. Il regista, inoltre, dimostra di saper gestire i toni solenni senza risultare eccessivamente pomposo, allontanando la macchina da presa dai personaggi, mostrandoli spesso a figura intera e lavorando per sottrazione, sia nella direzione degli attori che nei tagli. Angelina Jolie non ha mai recitato così, e tanto basta per andare oltre il difetto della poca somiglianza con la controparte reale. A noi è bastato vedere l’ouverture per renderci conto di avere davanti un prodotto che deve esistere principalmente in sala, e in Italia potremo avere la fortuna di vederlo così, perché in alcune parti del mondo lo distribuirà Netflix. Un’occasione da non far sfuggire.